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Dal Giornale d'Italia  31/5/1940, pag. 3
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Il Giornale d'Italia, 31/5/1940, pag.3

Risposta rivelatrice a una rampogna carducciana

Alle sorgenti del Clitunno

I “piangenti salci” che adornano le classiche fonti, fratelli di
quelli che ombrarono  la tomba di napoleone a Sant’Elena

(dal nostro inviato)

FONTI DEL CLITUNNO, maggio.

Nel giugno 1876 Carducci, Commissario Regio per gli esami a Spoleto, conobbe queste classiche fonti e qui trasse la diretta ispirazione per la sua Ode famosa. Un Lucini che fu testimone del breve soggiorno del Poeta, in compagnia di professori e di personalità spoletine, ricordava come egli stesse lungamente assorto a contemplare e la montagna imminente e il dolce piano e da solo ripetesse, lungo l’erba molle del rivo sacro, il cammino  verso il tempietto superstite a saturar3e il cuore ed il cervello dei motivi musicali del paesaggio e degli echi sonori del mito e della storia richiamati dai secoli a squillare improvvisi nel vasto silenzio meditativo.

Luogo idilliaco

Il luogo è come allora, più idilliaco forse: non mancano qui presso né il gregge, né il dipinto plaustro, né il candido giovenco dalle lunate corna, e nemmeno a farlo a posta, le nubi fumanti sull’Appennino in questa avanzata primavera piena di meteorologiche incertezze. Una novità c’è tuttavia: sedici anni fa era un’ombra appena, adesso è una macchia evidente: sulla costa brulla e desolata, maledettamente in contrasto con l’aggettivo coloristico, con cui il poeta aveva esaltato la terra umbra, un eminente agronomo, che ha legato il suo nome al rinnovamento agricolo della Nazione e che è anche appassionato ricercatore di patrie memorie, il dott. Francesco Francolini. Ispettore Capo dell’Agricoltura di terni, vincendo difficoltà non poche, era riuscito a far eseguire un armonioso rimboschimento, per cui adesso la cornice del Clitunno è stata liberata da una intollerabile bruttura.

— Fu, seguendo la guida stessa del Carducci, che la scelta delle piante, da far vivere in così incantevole quadro, cadde di preferenza su quelle da lui invocate a custodia del fiume sacro: l'elice nero, il frassino dalla chioma ondeggiante, il vigile cipresso.

— Quindi niente salici

— Niente! sono sufficienti quelli che si specchiano fino ad immergersi, nella conca cristallina e contro cui tuonò, poveretti, l’anatema di Giosuè: «Chi l’ombra addusse del piangente salcio — Sui sacri rivi? Ti rapisca il vento — Dell’Appennino, o molle pianta, amore — D’umili tempi».

Eppure, se avesse saputo donde era qui giunta la «molle pianta» credo che l’invettiva avrebbe cambiato direzione e tono. Ecco, vedete, perché ho desiderato la vostra presenza a questo amichevole convegno: dirò io la risposta che, ad una così disdegnosa domanda, ha tardato, per esprimersi, la bellezza di oltre 60 anni.

Il mio interlocutore s’era intanto assiso sul tappeto soffice di smeraldo, sotto la chioma verde tenero del più venerando salice, quasi di fronte alla inutile smarrita erma bistolfiana: io me ne stavo curioso ad attendere la promessa rivelazione che, fatta in quell’angoletto di arcaiche delizie, acquistava un segreto disigillato dal fondo prezioso della fonte.

— Per giungere a chiudere l’anello di tante rigorose ricerche ho dovuto, lo confesso, compiere una discreta fatica, specialmente in questi tre ultimi anni: ma il soggetto lo merita. Dunque, nel 1924 trovandomi a sorvegliare le piantagioni sulla montagna ebbi la fortuna d’incontrarmi con il conte Tommaso Valenti, studioso e geloso custode dei gloriosi ricordi di questa nostra adorata terra. Mi colpì, in quella occasione un ragguaglio, che non dovette essere ignoto, alla mia prima giovinezza se potetti sia pur confusamente rievocarlo: che cioè una tradizione locale attribuiva la provenienza di questi salici niente di meno dalla tomba di Napoleone a sant’Elena. Avevo conosciuto i nobilissimi signori di questi luoghi e mai, ch’io rammenti, ebbi da loro alcun accenno in proposito: le carte dei loro archivi appaiono mute. Tre anni orsono però mi capitò sotto gli occhi una fotografia, che doveva persuadermi a intensificare e coordinare le indagini.

Intanto, cominciamo dalle testimonianze più antiche. Nessuna di queste da Plinio, la cui minuta descrizione del Clitunno servì in certo modo a suggerire al Carducci delle magistrali pennellate, a Pier Francesco Giustolo del secolo XV, da Byron al conte Tullio Dandolo accenna mai che frondeggiassero salici piangenti, bensì pioppi, come quelli che vediamo ora in lunga processione, ornelli, frassini, cipressi. Il primo a parlarne, maledicendo, fu Carducci nell’Ode datata 1877: e Carducci contro il salice aveva una particolare fobia: in questo caso poi la sua domanda «Chi l’ombra indusse …» potrebbe anche interpretrarsi come rampogna contro alla sua recente impostazione, poiché, come sentirete, le piante allora dovevano essere giovanissime.

Una Testimonianza

Infatti, ecco la fotografia che parli, quella, che rintracciai presso una illustre famiglia di Spoleto amica dei conti di Campello: è del 1865 e ritrae panoramicamente il laghetto delle sorgenti fatto ampliare dal conte Paolo, che nel 1851 vi fece scorrere la prima barchetta fatta venire da Piediluco. Guardate: di salici nemmeno la traccia.

E proseguiamo. Tutti i biografi di Napoleone I, dal conte di Las Casas al Ludwig e numerose stampe del Museo degli Invalidi a Parigi confermano che a S. Elena sulla tomba di Napoleone e le altre località dell’Isola esistevano dei salici piangenti. Nel 1840 [nel testo, erroneamente: 1940], allorché per volere di Luigi Filippo la fregata «Belle Poule» trasportò in Francia i resti mortali del grande Corso da parecchie persone del seguito e dagli stessi compagni di sventura e di esilio dell’Imperatore vennero tagliate numerose talee di cui si fecero poi delle piantagioni in vari giardini pubblici di Parigi e della Francia. La geniale iniziativa fu presa dal generale Gourgand e da mons. Coquerau, elemosiniere della «Belle Poule». Fino al 1947 un «salice napoleonico», come vennero chiamati i discendenti dell’albero di Sant’Elena, esisteva allo Square Ventimille. Ora, l’insigne botanico senatore Mattirolo, professore emerito dell’università di Torino, mi ha assicurato che verso gli anni 1860-65 tanta era diffusa in Francia la moda dei Saules Napoleonlens che non solo si piantavano ovunque, ma formavano oggetto di artistici quadretti e di ricami. Perfino i parrucchieri si valsero di questa mania per preparare certe composizioni ove ill salice napoleonico è rappresentato da tanti filamenti di capelli di persone defunte!

Realtà a tradizione.

Riallacciando le date, troviamo che il conte Paolo di Campello, che aveva in moglie Maria Buonaparte, figlia di Carlo Luciano, principe di Canino, negli anni 1865 e 66 fu più volte a Parigi ospite di Napoleone III. Ebbene mi consta che, durante queste peregrinazioni parigine, il Conte eseguì lavori per l’ingrandimento del suo parco alla villa di Campello, facendo venire proprio da Parigi numerose piante ornamentali, fra le quali venute da tanto lontano i suoi giardinieri videro con meraviglia come c’erano parecchie che vivevano spontanee nei nostri boschi. Questo aneddoto convalida l’ipotesi che, mentre la moda del salice napoleonico era al colmo, il conte Paolo avesse desiderato di trapiantarne qualche esemplare nelle sue fonti. Così la tradizione si confonde con la realtà e con la storia.

Restava intanto da chiarire un ultimo dubbio, che però è stato sciolto di recente e con pieno successo: la specie dei salici del Clitunno ha l’identità botanica di quella dell’isola di Sant’Elena? Studi speciali eseguiti dai più chiari botanici odierni dal Viesner allo Strasburgher, dal Gola al Matttirolo hanno concluso per ammettere che si tratta di un ‘unica specie, del «Salix Babylona Linnens» [più propriamente: «Salix Babylonica Linnaeus»] la cui area di diffusione abbraccia appunto le Isole dell’Atlantico e del Pacifico. Che ne dite?

— dico che la vostra rivelazione ha arricchito di una nuova gentile attrattiva questa plaga unica al mondo: e penso come voi, che se il Carducci avesse saputo, forse non avrebbe inveito contro l’albero misericorde, come certo non avrebbe inserito nell’Ode il verso blasfemo se avesse prima conosciuto l’abate Chanoux.

Giulio Loccatelli